La protesta dipinta

Come la politica ha distrutto l’arte contemporanea

29.12.2025

Mia madre ha perso entrambe le gambe mentre andava alla Barbican Art Gallery. Era il suo giorno libero e si stava recando lì per vedere una mostra intitolata Unravel: The Power and Politics of Textiles in Art. Era appena arrivata a Londra con un pullman da Oxford ed è stata investita da un autobus fuori dalla stazione Victoria. Era un venerdì mattina dei primi di maggio. Il giorno dopo, nel mio appartamento a Manhattan, ho ricevuto una chiamata inaspettata – mia madre non mi chiama mai – da un reparto traumatologico di un ospedale della zona ovest di Londra. “Sto soffrendo molto” mi ha detto con una voce forte, angosciata e biascicata che stentavo a riconoscere, “ma sono in ottime mani”. Poche ore dopo, ero su un volo di ritorno.

Quando sono andato a trovarla in ospedale, mia madre mi ha chiesto se valesse la pena perdere le gambe per quella mostra. “No”, le ho risposto, anche se in quel momento non l’avevo ancora vista. Quando l’ho fatto, due settimane dopo, la mia risposta si è rivelata corretta. Unravel metteva in mostra arazzi, trapunte, ricami, sculture e installazioni di artisti contemporanei, la maggior parte dei quali appartenenti a gruppi sociali storicamente marginalizzati. I curatori sostenevano che anche gli stessi tessuti fossero stati marginalizzati, essendo associati al genere femminile e considerati “artigianato” piuttosto che “belle arti”. Di conseguenza, come sosteneva il testo introduttivo della mostra, gli aspetti politicamente più radicali della lavorazione tessile erano stati oscurati. “Cosa significa immaginare un ago, un telaio o un indumento come strumento di resistenza?” – si chiedevano i curatori.

Appesi al soffitto, sopra l’ingresso, c’erano indumenti in stile nativo americano realizzati da Jeffrey Gibson, pittore e scultore che ha anche rappresentato gli Stati Uniti nel padiglione nazionale alla Biennale di Venezia del 2024. Ispirati dalla sua origine choctaw e cherokee, i capi erano decorati con patchwork arcobaleno su cui erano stampate frasi come “people like us”, “we play endlessly” e “speak to me so that I can understand”. Più avanti, tra le altre cose, si trovavano un collage dipinto che ritraeva una donna nera e allegra in una bodega; piccoli ricami realistici di marce di drag queen e lesbiche a New York; sculture di cactus cucite con uniformi della polizia di frontiera statunitense e l’immagine di una donna che partorisce ricamata su seta rosso sangue, con il suo ampio ventre che irradia onde di energia. C’erano lavori decorativi annodati, collage ricuciti a mano, opere astratte intrecciate sospese nell’aria e soffici fasci di stoffa.

La galleria era intervallata da una serie di spazi vuoti. Poco dopo l’apertura, Unravel ha cominciato lentamente a disfarsi man mano che più opere venivano ritirate in segno di protesta contro la decisione del Barbican di non ospitare una serie di conferenze della “London Review of Books” che avrebbe dovuto includere The Shoah After Gaza, un discorso dello scrittore Pankaj Mishra pubblicato successivamente come saggio sulla stessa rivista. Le sparizioni sono iniziate quando due lavori di Loretta Pettway, un’anziana quilter di Gee’s Bend (Alabama), sono stati ritirati dai loro prestatori, Lorenzo Legarda Leviste e Fahad Mayet. Un altro prestatore e quattro artisti di spicco hanno seguito l’esempio. Alcuni di loro hanno scritto lettere aperte nelle quali accusavano il museo di censurare gli interventi filopalestinesi. Per dirla con le parole della pittrice, ricamatrice e videoartista libanese Mounira Al Solh, “chi alza la voce per la giustizia viene messo a tacere”.

La poetessa e artista cilena Cecilia Vicuña ha acconsentito alla permanenza in mostra delle sue serpentine di lana pendenti, apponendovi accanto, tuttavia, una lettera in cui esprimeva la sua solidarietà con i colleghi dissidenti. Anche Yee I-Lann – la cui esposizione di stuoie tradizionali malesi con motivi intrecciati raffiguranti sagome di tavoli era intesa a sovvertire il “potere del tavolo”, apparentemente simbolo dell’oppressione portoghese, britannica e olandese – ha preferito non ritirare la propria opera. Ha invece fatto portare un tavolo (!) dagli uffici amministrativi del Barbican, sul quale è stata esposta una copia del numero della “London Review of Books” in cui era stato pubblicato il saggio di Mishra. Sulla copertina erano incollati due adesivi giallo canarino su cui erano riportati dei codici QR che rimandavano a un sito web animato con un testo in grassetto lampeggiante di Leviste e Mayet che recitava:

censorship at the barbican

repression at the barbican

racism at the barbican

genocide at the barbican

È stata la mostra più deprimente che abbia mai visto in quella galleria: meritava a malapena una visita, figuriamoci la perdita delle gambe. Benché Unravel fingesse di essere politicamente radicale – persino rivoluzionaria – non sembrava andare oltre un’ortodossia liberale e una rassicurante varietà geografica. Offriva fantasie di resistenza, ma aveva ben poco da proporre in termini di cambiamento sociale autentico e sostanziale o di sperimentazione artistica. Le opere erano quasi interamente realizzate con metodi e materiali tradizionali, seguendo un’estetica riconoscibile, e avrebbero potuto risalire a mezzo secolo fa, se non a molto prima.

Questa riflessione non si limita alla mostra del Barbican. Poco prima dell’incidente di mia madre, ero stato alla sessantesima edizione della Biennale di Venezia, la più longeva rassegna d’arte internazionale al mondo. Lì mi sono imbattuto in qualcosa di molto simile: un ritorno nostalgico alla storia e una fascinazione per l’identità, il tutto declinato in forme familiari. La Biennale del 2024, intitolata Foreigners Everywhere, era incentrata attorno a quattro identità: l’artista queer, l’artista outsider, l’artista folk e l’artista indigeno, e suggeriva che fossero tutti stranieri perché emarginati. Era una mostra di ritratti dipinti, cuciti a mano, scolpiti, fotografati e filmati di tali figure; scene naïf della vita quotidiana nel sud del mondo, dagli aborigeni australiani all’Amazzonia brasiliana e colombiana, e, ancora, ceramiche tradizionali, intagli in legno, sculture in metallo e tessuti tinti. C’era un enorme murale realizzato da un collettivo di donne di Bangalore; un’interpretazione di danza contemporanea della violenza commessa contro i migranti cinesi e le persone queer in Occidente ad opera di un coreografo millennial di Hong Kong; un dipinto con la scritta “anonymous homosexual”; e, in un patio esterno, un autoritratto nudo in bronzo di un artista transgender su un piedistallo che recava semplicemente la scritta WOMAN. 

Del resto, tutte le principali biennali che ho visitato negli ultimi otto anni – dalla Germania alla Grecia, dall’Italia agli Stati Uniti, dal Brasile agli Emirati Arabi Uniti – avevano come tema la profonda ricchezza dell’identità e il rifiuto dell’Occidente. Queste biennali hanno dato spazio ad artisti trascurati del XX secolo ed esposto oggetti di recupero, artigianato tradizionale e arte popolare. I loro comunicati stampa hanno annunciato il recupero di forme di conoscenza precoloniali come il pensiero indigeno e la magia.

Solo dieci anni fa, il mondo dell’arte era qualcosa di molto diverso: un circuito globalizzato di biennali e fiere che si reggeva sul commercio internazionale di idee e merci. Era uno spazio di spettacolo e innovazione, in cui gli artisti sperimentavano mezzi espressivi estremamente diversi e intrattenevano idee radicali su ciò che l’arte poteva fare e sul perché. Si ricercavano nuove forme culturali per un nuovo millennio. L’arte era il luogo della sperimentazione, dove le persone indagavano cosa significasse essere vivi in questo strano nuovo secolo e come dare forma a quella sensazione. Gli artisti erano ricercatori dai quali non ci si aspettava mai che giungessero a delle conclusioni. Avevano la libertà dell'assoluta mancanza di scopo.

Ma quando intorno al 2016 la fiducia nell’ordine liberale ha cominciato a sgretolarsi, questa concezione dell’arte ha iniziato a perdere rilevanza. Con l’intensificarsi delle preoccupazioni intorno all’identità, alle questioni sociali e alle disuguaglianze, si è diffusa la sensazione che il mondo dell’arte fosse diventato frivolo e decadente, che la proliferazione di forme e approcci nel corso dei decenni avesse raggiunto il suo limite. L’arte, che sino ad allora era stata un modo per dare vita a una polifonia discorsiva, ha finito con l’allinearsi ai discorsi dominanti del momento sulla giustizia sociale, con opere mascherate da protesta e contestualizzate secondo la teoria decoloniale o la teoria queer, guidate da un’attenzione esclusiva sull’identità.

Questa svolta è stata una conseguenza dell’esaurimento e dell’eccessiva espansione del mondo dell’arte; ecco quindi una nuova direzione, un sistema di credenze da seguire che potesse restituirle parte del suo significato e della sua rilevanza, forse persino una grande narrazione e uno scopo. L’ambizione di esplorare ogni aspetto del presente è stata rapidamente sostituita da un devoto impegno verso questioni di equità e responsabilità. Si è così trovata una nuova risposta alla domanda circa il ruolo dell’arte: amplificare le voci di coloro che sono stati storicamente emarginati. Ciò che di sicuro non dovrebbe fare, a quanto pare, è essere creativa o interessante.

Il filosofo e critico Arthur Danto riteneva che l’arte fosse finita negli anni Sessanta. Dalla fine del XIX secolo in poi, si era assistito a un susseguirsi frenetico di movimenti modernisti, ciascuno in contrapposizione al precedente e con le proprie risposte alle domande fondamentali su cosa dovesse essere l’arte. Tuttavia, alla fine degli anni Sessanta – in seguito ai convulsi balzi in avanti della Pop Art, con la sua abolizione della distinzione tra opere e oggetti di uso quotidiano, e del concettualismo, con la sua dissoluzione degli oggetti in idee – all’arte moderna non era rimasta più alcuna strada da seguire. Scriveva Danto: 

All’inizio solo la mimesi era arte, poi diverse cose erano arte, ma ognuna cercava di eliminare i propri concorrenti, e infine divenne evidente che non c’erano vincoli stilistici o filosofici. Non esiste un modo particolare in cui le opere d’arte devono essere. È la fine della storia.

Come un Buddha che ha meditato troppo profondamente e ha oltrepassato l’illuminazione sulla via per la follia delirante, l’arte si è autodistrutta attraverso una contemplazione eccessiva e nichilista. Continuerà ad esistere, diceva Danto, e potrebbe persino prosperare, ma la grandiosa narrazione del modernismo è finita. 

Per Danto, la fine di questa narrazione del progresso è stata ciò che ha reso possibile il “contemporaneo”. Dal momento che l’arte non avrebbe più risposto a se stessa e non avrebbe più avuto alcun vincolo, altre attività umane avrebbero potuto essere attirate dal mondo nelle sue insaziabili fauci. L’arte ha smesso di andare avanti. I singoli artisti erano liberi di consumare il presente, inghiottire altre forme culturali e trasformarle in nuove esperienze. 

La varietà non è certo mancata: Cao Fei ha costruito una città galleggiante nel mondo virtuale di Second Life; Paola Pivi ha riempito una Kunsthalle svizzera con tremila tazze di cappuccino e un leopardo; Cai Guo-Qiang ha coreografato uno spettacolo pirotecnico con le impronte di un gigante che attraversavano il cielo di Pechino per la cerimonia di apertura delle Olimpiadi estive del 2008; Wael Shawky ha girato un adattamento del saggio storico di Amin Maalouf The Crusades Through Arab Eyes sotto forma di un lungometraggio epico di cabaret realizzato con marionette; Philippe Parreno ha viaggiato in Patagonia per raccontare due ore di storie filosofiche sconclusionate a una colonia di pinguini sulla spiaggia, scattando una sola fotografia come documentazione; Carsten Höller ha ospitato un branco di renne nella Hamburger Bahnhof di Berlino, ne ha nutrite metà con amanita muscaria e ha costruito una camera d’albergo a forma di fungo velenoso in cui gli ospiti potevano servirsi dell’urina potenzialmente allucinogena delle renne.

L’arte degli anni ’90, 2000 e dei primi anni 2010 era pluralista in quanto a intenzioni, forme e soggetti. Abbracciava tematiche disparate come la letteratura e la poesia, la danza d’avanguardia, il teatro, il cinema, la televisione, la psicoanalisi, la filosofia, la storia, la politica, la musica noise, la pornografia, la pole dance, l’abiezione online, i sacrifici rituali, la crocifissione, il cannibalismo, i barbecue thailandesi, Zinedine Zidane che gioca una partita di calcio a Madrid, la navigazione d’altura, l’astronomia, il design industriale, l’essere un cane, mordere le persone... tutto. Tutto poteva essere trasformato in arte. Il “contemporaneo” era eternamente sfuggente, si allontanava costantemente dagli artisti che lo inseguivano: era un progetto di ricerca senza fine. 

In quei giorni era possibile sentirsi parte di un’avanguardia e – dato che nel mondo dell’arte c’era una vera e propria mania e un livello di fiducia in se stessi che i ricchi sentivano il dovere di incoraggiare – ricevere il sostegno e le risorse necessarie per tentare i progetti più ambiziosi. L’arte contemporanea era fondamentalmente ottimista; c’era la convinzione che fare arte fosse un bene in sé, che spingersi oltre i suoi confini fosse uno sforzo utile e che grandi passi avanti nella cultura fossero ancora possibili. Teorici, filosofi, poeti e scrittori venivano attirati da altri campi. Il mondo dell’arte era il luogo in cui si poteva trovare il più ampio margine di manovra per fare ciò che si voleva. Era il luogo in cui si potevano trovare le idee più insolite e assurde, ma anche open bar, sesso e glamour. Questo era il mondo dell’arte che mi attirava. 

Durante i miei vent’anni, quando studiavo storia dell’arte e curatela, lavoravo come stagista in gallerie pubbliche e commerciali e collaboravo con riviste di moda a Londra, percepivo l’arte come qualcosa di molto importante. Era un mondo in rapida evoluzione, con un flusso costante di nuovi artisti e pensatori e l’obbligo di stare al passo con loro. Hans Ulrich Obrist, il super-curatore di spicco degli anni 2000, per il quale ho fatto uno stage alla Serpentine Galleries di Londra nell’estate del 2008, diceva sempre che tutto era “urgente”: era urgente che il pubblico continuasse a parlare di arte, era urgente che continuasse a produrla ed era urgente che continuasse a vederla. C’erano così tante persone affascinanti da incontrare, così tante idee da esplorare, così tanti progetti da realizzare, ma così poco tempo. Obrist era solito ospitare una serie di salotti, noti come “Brutally Early Club”, nei caffè di Londra, dove scrittori e pensatori si riunivano per discutere le loro idee alle sei e mezza del mattino. Non c’era tempo per riposare. 

Obrist era conosciuto dai suoi amici e colleghi come “Hurricane”. Ha girato il mondo senza sosta, incontrando chiunque potesse, presentandoli l’uno all’altro, di persona o via e-mail sui suoi due BlackBerry, insistendo sull'urgenza della loro conversazione. Se il ruolo dell’artista contemporaneo era quello di consumare il mondo, Obrist credeva che il ruolo del curatore fosse quello di metterlo in connessione, di diventare il canale attraverso cui potesse fluire tutta la creatività e il pensiero del XXI secolo. Nel tentativo di farlo, potrebbe aver perso parte della sua sanità mentale, come comprensibilmente accade a chi dorme troppo poco, attraversa troppi fusi orari troppo rapidamente, invia e riceve troppi messaggi, ascolta troppe idee assurde da troppe persone folli. (A un certo punto, aveva dei piccoli magneti terapeutici attaccati alle tempie). Ha quasi distrutto se stesso, come dovrebbe fare un cittadino impegnato dell’inizio del XXI secolo, in un’orgia di connettività.

La frenetica devozione di Obrist rifletteva la sua convinzione che tutto dovesse essere collegato, la sua fede idealistica nelle possibilità umanistiche di Internet e della globalizzazione. Continuava a sognare che la connettività potesse unire tutti, oltre i confini e le discipline, che si potesse stringere amicizia con persone affini in tutto il mondo, legate da interessi comuni. L’arte sarebbe stata lo strumento per accedere a ogni altra forma di cultura e filosofia: una mappa del presente, un nuovo linguaggio universale.

Nel 2013, all’aeroporto Marco Polo, mentre aspettavamo il volo di ritorno per Londra dalla Biennale di quell’anno, io e i miei amici ci siamo seduti per terra a discutere su quale potesse essere la vita migliore. Eravamo tutti d’accordo: la vita di un artista. Dedicarsi all’arte era il modo per essere felici e liberi. Gli artisti potevano fare tutto ciò che volevano; erano famosi, rispettati e sessualmente desiderabili; potevano trasformare qualsiasi cosa in arte e creare le proprie ragioni per farlo; guadagnavano enormi quantità di denaro senza fare molto. Sicuramente non c’era niente di meglio. Tuttavia, nessuno di noi seduti su quel pavimento dell’aeroporto è riuscito davvero a diventare un artista. Alcuni hanno trovato il successo in carriere più convenzionali, altri sono diventati incredibilmente ricchi grazie a investimenti precoci in Ethereum, altri ancora si sono allontanati dalla società e molti altri li ho dimenticati completamente. Dapprima lentamente e poi tutto d’un colpo, la musica è svanita, gli ospiti sono spariti e la festa è finita. L’arte contemporanea era diventata così popolare, così urgente, così cool e così ben finanziata che, col senno di poi, il declino era inevitabile. Non appena raggiunto il suo apice, il culmine del suo massimo splendore, aveva già iniziato la sua rapida caduta.

I primi segnali di cambiamento si sono intravisti nel 2017. Quell’anno Documenta – una delle più grandi mostre d’arte al mondo, che normalmente si tiene ogni cinque anni a Kassel, in Germania – era intitolata Learning from Athens ed è stata inaugurata nella capitale greca, scelta per la sua importanza simbolica come porta d'accesso dall’Europa al Sud del mondo. Particolare attenzione è stata riservata agli artisti indigeni, come lo scultore Kwakwaka’wakw Beau Dick, le cui maschere riempivano la prima sala, e a vari artisti storici poco conosciuti, tra cui un numero inaspettato di pittori realisti socialisti albanesi del XX secolo. Come ha spiegato il direttore artistico Adam Szymczyk in conferenza stampa, c’era molto da guadagnare nel presente rivolgendosi al passato, “disimparando” tutto ciò che pensavamo di sapere.

All’epoca si trattava di un approccio sorprendente, “the shock of the old”, perché abbandonava l’ossessione dell’arte contemporanea per il presente e la separazione gerarchica tra arte alta e tradizioni popolari, riunendo tutto in un’unica grande mostra. I risultati furono straordinari. Era la prima volta che vedevo attribuire tanta importanza in una grande mostra a opere tradizionali e bellissime come la serie di paesaggi in tempera su rotolo in stile realismo magico popolati da esseri folcloristici (intitolata Each Night Put Kashmir in Your Dreams) della pittrice indiana Nilima Sheikh; la prima volta che vedevo la riproduzione tessuta a mano di un microprocessore che la Intel Corporation aveva commissionato all’artista tessile navajo Marilou Schultz negli anni Novanta; la prima volta che ho ascoltato la Sinfonia delle sirene del compositore russo Arseny Avraamov, eseguita a Baku nel 1922 con sirene di fabbrica, campane, sirene navali della marina e pezzi di artiglieria per celebrare il quinto anniversario della Rivoluzione d’Ottobre.

L’effetto combinato di questi incontri inaspettati con così tante estetiche e idee sconosciute era disorientante ed entusiasmante. Szymczyk ha cercato di racchiudere il mondo intero, i suoi popoli e la storia moderna in quarantasette sedi ad Atene e altre trentacinque a Kassel. Da allora nessuno ha più osato creare una mostra così ambiziosa o ha fatto un lavoro lontanamente comparabile con questo approccio storico e non gerarchico.

Quello stesso anno sono andato a Venezia. L’artista brasiliano Ernesto Neto aveva collaborato con il popolo amazzonico degli Huni Kuin alla realizzazione di una grande tenda cerimoniale lavorata all’uncinetto chiamata Um Sagrado Lugar, che costituiva il fulcro del Padiglione degli Sciamani. Durante quei miti giorni di inaugurazione, gli Huni Kuin guidarono processioni danzanti tra la folla di curatori, critici, mercanti d’arte e personaggi mondani che affollavano i Giardini come se fossero attori di un film di Fellini. Sette anni dopo, alla Biennale del 2024, i rappresentanti di questo popolo indigeno con una popolazione di circa undicimila persone erano ancora sotto i riflettori: l’intera facciata del padiglione centrale dei Giardini era ricoperta da un murale dipinto dal Movimento dos Artistas Huni Kuin (MAHKU). Ispirati ai rituali nixi pae, in cui consumano la bevanda psicoattiva ayahuasca, recitano canti guidati dal loro mastro cantore e sperimentano ramibiranai (“immagini emergenti”) allucinatorie, gli artisti Huni Kuin hanno canalizzato la prospettiva di Yube, lo spirito del boa constrictor della foresta, utilizzando la pittura come mezzo per registrare la loro tradizione. All'ingresso della mostra, la storia del “ponte dell’alligatore” tra l’Asia e le Americhe – secondo cui un alligatore gigante accettò di trasportare gli esseri umani attraverso lo stretto di Bering, per poi immergersi quando questi lo tradirono – era dipinta lungo il colonnato in uno stile da coloring-book, con forme cartoonistiche prive di emozioni e riempite con pigmenti sgargianti e non miscelati, che sembravano più adatti al cortile di un asilo che all'ingresso di una grande mostra d'arte contemporanea. Il tutto suggeriva una sorta di zelo missionario al contrario: invece di attraversare il globo e rubare le anime degli indigeni con le macchine fotografiche, i curatori qui riportano in un Occidente disincantato immagini dipinte di modalità di vita più primitive, affinché gli spettatori possano essere guariti dalla loro conoscenza incarnata, o comunque accedere a un collegamento diretto con l’età dell’oro, con un paradiso non rovinato da Trump, dal populismo, dalla Silicon Valley, dalla globalizzazione, dalla modernità, dall’Illuminismo, dal capitalismo, dal colonialismo, dal nazionalismo, dalla whiteness, dal tempo lineare e dalla rivoluzione agricola. Il nostro dio potrebbe essere morto, ma c'è il desiderio di riscoprire altri dei più antichi.

Si potrebbe ragionevolmente identificare un ritorno alla tradizione, un desiderio di passato, con le forze politiche reazionarie. Ma se i conservatori hanno generalmente poco interesse per le novità, lo stesso vale per chiunque altro oggi. Tutti nel mondo dell’arte contemporanea vogliono far rivivere una tradizione, per quanto recente: la scultura greca ellenistica, il culto romano di Adone, le antiche cerimonie nuziali nubiane, la cultura ceramica degli antichi Pueblo, i canti mesoamericani precolombiani, la cosmologia Mapuche, la tessitura Maya Tz’utujil, la mitologia Inca, la creazione di maschere africane e la pittura proto-cubista che ne è stata ispirata, l’America degli anni Cinquanta, il movimento New Sacred Art degli anni Sessanta della Foresta Sacra di Osun-Osogbo, la cultura cruising dei lavoratori migranti di Pechino degli anni Ottanta, l’arte contemporanea della fine degli anni Duemila, ecc. Sembra che tutti vogliano fuggire dal presente. Desideriamo semplicemente un passato diverso.

Il passato a cui gli artisti di oggi guardano con nostalgia coincide in gran parte con il loro patrimonio culturale, la cui espressione – che si tratti di riprendere le tradizioni estetiche dei loro antenati, di produrre rappresentazioni letterali delle loro comunità e di se stessi, o semplicemente di fare della loro identità e della loro storia personale il soggetto delle loro opere – viene debitamente ricompensata. Un genere particolarmente popolare consiste nel filmarsi mentre si vaga nella foresta pluviale o si rievocano antichi rituali, realizzando video che si collocano a metà strada tra il documentario etnografico e la danza di TikTok. Alla Biennale del Whitney del 2024, Even Better Than the Real Thing, New York, l’artista cilena mapuche Sebastiana Calfuqueo si è filmat* mentre trascinava una lunga scia di tessuto blu lucido attraverso la sacra foresta di Pehuén fino a una pozza sotto una cascata. Per Unravel, Antonio Pichillá Quiacaín si è ripreso nella natura selvaggia del Guatemala mentre avvolgeva un telaio portatile attorno a un albero e intrecciava un cordone ombelicale dai colori vivaci, in riferimento alla pratica culturale ancestrale Tz’utujil tramandatagli da sua madre, nella quale la tessitura è considerata un mezzo per preservare la conoscenza. Per Foreigners Everywhere, l'artista sudanese-norvegese Ahmed Umar ha filmato la sua performance di una tradizionale danza nuziale sudanese a torso nudo davanti alla telecamera, dopo aver incrementato “il suo consumo di cioccolatini norvegesi per aumentare la sua silhouette fisica”. 

Alla Biennale del Whitney, in particolare, sono state esposte molte varianti di neoindigenismo remixato. I dipinti di Eamon Ore-Giron hanno reinterpretato figure dell’antico folklore andino, come il drago Amaru e l’arcobaleno a due teste del grande creatore Viracocha, nei toni pastello e nello stile piatto Corporate Memphis delle pubblicità metropolitane delle startup dei millennial. Dall’altra parte della sala, oltre l’installazione in legno e tessuto tinto con argilla di Dala Nasser ispirata al Tempio di Adone, il video di Clarissa Tossin con le performance della poetessa Maya K’iche-Kaqchiquel Rosa Chávez e dell’artista Ixil Tohil Fidel Brito Bernal proponeva musica eseguita con delle repliche stampate in 3D di strumenti a fiato Maya. A completare il tutto c’era il cerchio di figure femminili a grandezza naturale di Rose B. Simpson, realizzate secondo la tradizione ceramica pueblo praticata da sua madre, da sua nonna e dalla sua bisnonna. Le statue erano adornate con spago, perline di lava, radice di oshá e pelle, e ricoperte di misteriosi simboli dipinti: segni più, croci diagonali, colonne di trattini e spirali. Simpson descrive i suoi idoli come:

strumenti da utilizzare per guarire i danni che ho subito come essere umano della nostra era postmoderna e postcoloniale: oggettivazione, stereotipizzazione e lo svilente distacco della nostra parte creativa, facilitato dalla tecnologia moderna.

Sono talismani che proteggono dal presente.

Il pittore Louis Fratino è stato uno degli artisti più giovani a cui è stato riservato uno spazio consistente a Venezia. È anche una delle poche vere e proprie star del mercato dell’arte. Come molti suoi contemporanei, Fratino, trentaduenne, lavora in uno stile molto conservatore nonostante i suoi soggetti progressisti: scene omoerotiche nello stile di un Picasso a metà carriera. Il suo lavoro è un pastiche modernista o, come recita il catalogo della Biennale, “un vocabolario visivo che sintetizza i più grandi successi della storia dell’arte”. È un cubista statunitense gay del XXI secolo. Fratino è passato rapidamente dall’anonimato della fine degli anni 2010 a diventare uno degli artisti più apprezzati dal mercato nel recente boom della pittura figurativa. La sua opera più costosa, An Argument – una scena domestica onirica di due uomini nudi che dormono, uno sul divano del salotto e l’altro fuori sul balcone, venduta da Sotheby’s New York per 730.800 dollari nel 2022 – era esposta alla Biennale insieme ad altri successi come Metropolitan e I Keep My Treasure in My Ass. Mentre il modernismo rappresentava una rottura consapevole con il passato, i dipinti di Fratino sono una sorta di rottura consapevole con il futuro; sono rappresentativi della cultura odierna fatta di spin-off, remake, citazioni, interpolazioni e revival. Sotto questo aspetto, il mondo dell’arte non è poi così diverso dagli studi di produzione cinematografica, dalle case di moda o dalle etichette discografiche: la nuova cultura non è fatta da nient’altro che da vecchia cultura. 

Il nuovo lavoro di Fratino per la Biennale, ci è stato detto, “ha un peso emotivo che sembra urgente, svelando un ulteriore livello di risposta politica al clima sociale che le persone queer stanno affrontando ovunque”. Laddove l’insistenza di Obrist sull’“urgenza” derivava dalla convinzione che creare e discutere di arte fosse intrinsecamente importante, la presunta urgenza dell'opera di Fratino deriva dalla convinzione che, in questi tempi pericolosi, l’arte possa e debba svolgere un ruolo importante nella resistenza all’oppressione. Tuttavia, è difficile individuare un senso di urgenza politica nell’estetica raffinata e antiquata e nelle ambientazioni patinate delle scene uniformemente gradevoli della vita gay borghese di Fratino. Cosmos and Miscanthus è una natura morta di fiori in un vaso, e sotto di essi, come petali caduti, alcuni nudi polaroid; April (After Christopher Wood), che prende in prestito la composizione dal dipinto di Wood del 1930 Nude Boy in a Bedroom, raffigura un pittore nudo nel suo appartamento, con la porta del balcone aperta sugli alberi del giardino; in Wine la sala da pranzo di un ristorante affollato è riscaldata da un bagliore ambrato di vino bevuto a metà. 

Le celebrazioni dell’identità realizzate in stili così profondamente tradizionali sono progressive nei contenuti ma conservatrici nella forma. Propongono un détournement dell’appropriazione culturale cercando di espiare i peccati e le omissioni del passato con una serie di pastiche storico-artistici: opere d'arte canoniche rifatte da artisti con identità minoritarie. Gli artisti figurativi del passato ricomponevano corpi ideali, riprendevano motivi dalla Bibbia, dalla mitologia e dalla storia, realizzavano ritratti della classe dominante, catturavano somiglianze ravvicinate ed evocavano figure come emblemi o espressioni dello spirito della loro epoca; i pittori figurativi di tendenza di oggi realizzano immagini di sé. Un tempo avevamo pittori della vita moderna; ora abbiamo pittori delle identità contemporanee. Ed è la natura di queste identità – non il modo in cui vengono espresse – che si ritiene conferisca valore alla nostra arte.

La misura in cui il sistema dell’arte ha fatto proprie queste preoccupazioni solleva un’altra domanda: quando le mostre più influenti e meglio finanziate al mondo sono dedicate ad amplificare le voci emarginate, quelle voci continuano a essere emarginate? Esse parlano a nome della cultura dominante e sono sostenute dall’autorità istituzionale. Il progetto di mettere al centro chi prima era escluso è stato completato; non è più necessario che sia la priorità principale dei musei e ormai è stato svuotato di significato fino a diventare un luogo comune. Queste voci hanno perso le loro qualità peculiari. In un mondo di Foreigners Everywhere, le differenze si sono appiattite e tutte le forme di oppressione si sono fuse in un unico dolore universale. Siamo bombardati di identità fino a renderle prive di significato. Quando tutti vengono mescolati insieme nella grande insalata dell’emarginazione, l’alterità si fa banale e astratta.

La grande arte dovrebbe suscitare emozioni o pensieri potenti che non possono essere evocati in nessun altro modo. Se l’arte si limitasse a evocare la stessa esperienza che si potrebbe ottenere semplicemente conoscendo l’identità dell’autore, non avrebbe senso crearla, andare a vederla o scriverne. Se il potere emotivo di un’opera d’arte deriva dalla biografia dell’artista piuttosto che dall’opera stessa, allora l’espressione di sé è superflua; quando il sé è più importante dell’espressione, la vera cultura diventa impossibile.

In occasione della mostra al Whitney, la svolta socialmente consapevole dell’arte ha cercato di rivendicare ogni gesto come una forma di resistenza o critica. Uno dei pochi lavori che mi è piaciuto è stato il film sperimentale e giocoso Lifelike di Dora Budor, che accompagna lo spettatore in un tour di Hudson Yards, il megaprogetto edilizio di Manhattan spesso criticato, a pochi passi dal museo lungo la High Line. Girato con un iPhone montato su un gimbal al quale era fissato un vibratore, il video mostra il nuovo quartiere che luccica come un miraggio, le luci che tracciano scie circolari, l’architettura che emette un ronzio. È piacevole e confortante da guardare, come un ASMR visivo, ma cosa ha davvero da dire sugli effetti alienanti dello sviluppo immobiliare di New York?

Com’è possibile che quando Budor ha inserito dei vibratori all’interno di piccole ed eleganti sculture in legno, come ha fatto alla Biennale di Venezia del 2022, l’opera “metta in relazione la produzione industriale, la privatizzazione del piacere e le meccaniche del controllo biopolitico”, mentre qui “un dispositivo vibrante di piacere collegato alla fotocamera disturba la serenità, suggerendo un’alienazione comunemente vissuta nelle città sempre più dominate dall’architettura corporativa e dalla gentrificazione”? Quante forme di disaffezione tardo-capitalista può esprimere un vibratore? E Hudson Yards non è già una metonimia degli effetti avvilenti, fino a indurre al suicidio, dell’architettura corporativa? Non è forse questa l’osservazione più ovvia che si possa fare al riguardo?

Quando persone provenienti da altri ambiti mi dicevano che non capivano l’arte, rispondevo sempre che non c'era nulla da capire, che non c’era alcun significato nascosto da decifrare. Tuttavia, ultimamente mi sembra che ci sia. La sala di Budor era adiacente al soffitto postminimalista sospeso in vetro fumé di Charisse Pearlina Weston che, come spiegava il testo sulla parete, evoca “lo ‘stall-in’ pianificato dalle sezioni di Brooklyn e del Bronx del Congress of Racial Equality (CORE) per protestare contro l’Esposizione Universale di New York del 1964-65” ed esplora “le tattiche di Black refusal”. La sala di Budor conduceva al tepee appeso a testa in giù di Cannupa Hanska Luger, che, “ribaltando il nostro radicamento nel tempo e nello spazio, apre la strada a futuri immaginari liberi dal colonialismo e dal capitalismo, dove può fiorire una più ampia conoscenza indigena”. Poco dopo si incontrava il filmato slapstick lo-fi in prima persona di Dionne Lee che camminava frettolosamente attraverso un campo con una bacchetta da rabdomante. La pittura paesaggistica nordamericana ha “tipicamente adottato una visione molto ampia, con un orizzonte lontano che suggerisce sia ottimismo sia una forza colonizzatrice”, recitava il testo sulla parete. Ma il video di Lee “rifiuta questa convenzione a favore di un punto di vista più personale, incentrato sulle esperienze di sopravvivenza dei neri e sul loro rapporto con la terra”. In un altro punto della mostra era esposto l’assemblaggio di Karyn Olivier composto da trappole per aragoste trovate nel Maine, cime da pesca e boe appese a una corda fatta di sale, che “evoca il ricordo dell’origine oceanica dell’opera, ma anche della pratica di scambiare il sale con schiavi nell’antica Grecia”.

Inutile dire che era difficile ricavare un qualsiasi di questi presunti significati dalle opere stesse. Piuttosto, potevano essere scoperti solo leggendo le descrizioni sulle pareti, che sembravano i vaneggiamenti decifratori di un’élite iperistruita convinta che sotto gli oggetti quotidiani, le angolazioni delle telecamere, le orientazioni e i gesti ripetuti infinite volte esista un linguaggio semiotico nascosto di resistenza che tutto collega.

Mezzo secolo fa, sulle pagine di “Harper’s Magazine”, Tom Wolfe lamentava che, con l’arte moderna sempre più astratta e desoggettivizzata e la sua interpretazione sempre più strettamente prescritta dai critici più influenti dell’epoca, l’aspetto esteriore dell’opera diventava subordinato alla teoria che pretendeva di spiegarla, alle parole scritte. Nei decenni successivi, critici, artisti e curatori hanno iniziato a inquadrare le opere d’arte contemporanea in relazione a, più o meno, tutti i sottogeneri della filosofia contemporanea: decostruzione, poststrutturalismo, realismo speculativo, accelerazionismo, patafisica, psicogeografia. Ora, con il drastico restringimento dell’ambito dell’arte, si sono ridotti anche i quadri teorici utilizzati per interpretarla, e le descrizioni delle opere sono dominate dal linguaggio della teoria decoloniale o queer. 

Le affermazioni critiche non riguardano più l’arte in sé, come ai tempi di Wolfe, bensì la sua capacità di promuovere il cambiamento politico. Il mondo dell’arte non solo ha abbracciato le spiritualità magiche degli antenati, ma è anche tornato a una vecchia visione secondo cui le opere d’arte possono possedere un potere misterioso in grado di cambiare il mondo; secondo i testi pubblicati dalle istituzioni artistiche di tutto il mondo, i mali della società potrebbero essere sanati attraverso l’inclusività, le rappresentazioni simboliche e gesti arcani e codificati. Le riparazioni possono essere pagate con immagini, il senso di colpa può essere espiato attraverso incomprensibili significanti di responsabilità.

Ci mentiamo a vicenda e mentiamo a noi stessi dicendo che tutto questo lavoro monotono è stimolante, che influenza il modo in cui si formano le opinioni e si conquistano i cuori, ma ovviamente non è così. A nessuno importa, ed è in parte per questo che le mostre sembrano così prive di vita. Pochi si prendono ancora la briga di protestare contro la Biennale del Whitney, di chiedere la distruzione dei suoi dipinti o lo scioglimento del suo consiglio di amministrazione; i manifestanti non si preoccupano nemmeno più di incollarsi ai dipinti contemporanei per protestare contro l’industria petrolifera, perché non attirerebbe abbastanza attenzione o indignazione, quindi, prendono di mira i vecchi maestri e le star della modernità. I curatori continuano a combattere una guerra culturale che nel mondo esterno è già finita. 

Quando lavoravo per Obrist, lui organizzò una maratona di conferenze della durata di ventiquattro ore in cui filosofi, designer industriali, storici, ecologisti, romanzieri, architetti paesaggisti e registi venivano a parlare per quindici minuti ciascuno. All’epoca, c’era qualcuno che si presentava agli eventi artistici d’élite di Londra e lanciava la propria merda contro persone importanti. Il mio compito durante la serie di conferenze era quello di assicurarmi che Obrist rimanesse al riparo dagli escrementi. Oggi è impossibile immaginare che qualcuno voglia fare una cosa del genere a un curatore, immaginare che qualcuno se ne preoccupi abbastanza o che sappia persino a chi mirare.

Nonostante la mia visione cinica dell’arte contemporanea, mi capita ancora di imbattermi in opere che mi trasportano fuori dal mondo. Alla Biennale di Venezia del 2024 ho amato l’installazione dell’artista Massimo Bartolini nel Padiglione italiano, uno dei tanti padiglioni nazionali indipendenti dalla grande mostra collettiva internazionale, in cui sono state presentate composizioni originali di Caterina Barbieri, Kali Malone e Gavin Bryars. Attraversando il cavernoso spazio del magazzino, all’estremità del cantiere navale dell’Arsenale, ho sentito un leggero ronzio provenire da una canna d’organo in legno fatta a mano, che occupava gran parte della lunghezza del pavimento in mattoni e pietra. Poi, attraverso una porta, una macchina musicale automatizzata simile a un organo diffondeva un lamento ambient malinconico attraverso tubi di ponteggio che si estendevano in un'installazione labirintica lunga cinquanta metri. Al centro c’era una piscina circolare piena d’acqua pulsante; fuori, nel giardino, dagli alberi risuonava un arrangiamento corale di Bryars e di suo figlio Yuri. È stata un’esperienza meravigliosa e insolita, diversa da qualsiasi altra che abbia mai vissuto nelle migliaia di mostre che ho visitato nella mia vita. Sembrava un sogno ad occhi aperti, o una scena di Paolo Sorrentino sull’estasi e la tristezza della vita. L’architettura di Bartolini era irriducibile a messaggi sociali o politici, e mi ha fatto desiderare che ci fossero più tentativi di creare spazi o comunità utopiche, di aprire le menti a nuove possibilità, e così far sembrare la vita più ampia.

Anche nella mostra principale c’erano alcuni artisti straordinari: mi sono sentito trasportato dalle minacciose visioni mitiche di Rember Yahuarcani, con creature della foresta pluviale dal seno sodo che scopavano tra loro mentre linciavano avatar di uccelli canori dell’Unione Europea e degli Stati Uniti dalle loro forche in cima agli alberi. La mostra includeva anche le opere di suo padre, Santiago Yahuarcani, che come lui appartiene al clan dell'Airone Bianco della nazione Uitoto, del quale ho ammirato i dipinti dall’iconografia densa e caotica che raffiguravano membri della tribù sedotti da sirene amazzoniche dalle molte tette che soffiavano fumo nelle loro bocche o divorati da spiriti animali chimerici. Quest’opera mi ha ricordato lo straordinario affresco di Giovanni da Modena di inizio XV secolo nella Basilica di San Petronio a Bologna, che raffigura il diavolo e i suoi demoni che divorano i peccatori all’inferno. Mi hanno commosso anche le figure dagli occhi folli tinte con la tecnica batik che Susanne Wenger ha disegnato con pasta di amido di manioca, nel tentativo di dare forma agli archetipi junghiani, dopo aver studiato a Vienna negli anni Trenta ed essere emigrata in Nigeria negli anni Cinquanta, dove è stata iniziata alla religione Yoruba. Ho apprezzato la lussureggiante sensualità al “neon” degli acquerelli ritagliati su carta di Xiyadie, le sue estasianti orge gay a Pechino in cui i corpi sono incatenati insieme come angeli su una ghirlanda, e il suo inquietante autoritratto che raffigura il suo pene cucito con filo rosa che sboccia in fiori.

Ciò che rende questi artisti grandi non è il fatto che siano stranieri, ma piuttosto che le loro visioni siano così straniere. Sono outsider autodidatti che non possono essere inseriti in nessuna tradizione artistica o popolare: le immagini di Santiago e Rember Yahuarcani derivano dal folklore indigeno proprio come il murale del ponte degli alligatori di MAHKU, ma mentre quest’ultimo è realizzato in uno stile infantile e generico, i pittori del clan dell'Airone Bianco combinano la padronanza tecnica con una grande sperimentazione formale, evocando esseri febbrilmente creativi che nascono e ritornano nelle superfici energetiche e riccamente decorate dei loro dipinti e in spazi onirici strutturalmente confusi. Ciascuno di essi ci mostra scene di un mondo completamente diverso, in uno stile altamente sviluppato che è interamente personale. Tutti e quattro questi artisti si sono dedicati alle loro visioni molto bizzarre e singolari, rese con un’intensità palpabile che riempie le loro immagini affollate da un bordo all’altro. Creano strane e oscure scene fantastiche di violenza, terrore, lussuria e perversione: quei desideri umani repressi e inespressi che compaiono nell’arte da migliaia di anni, ma che, per la maggior parte, non sono più benvenuti nelle gallerie. Guardando le loro opere si capisce che stanno cercando qualcos’altro. 

Negli anni Novanta, quando ero uno studente di una scuola cristiana maschile a Oxford, l’insegnante di arte ci mostrò un video di una performance dell’Azionismo viennese del Das Orgien Mysterien Theater di Hermann Nitsch. Ricordo che i partecipanti erano nudi, avvolti in lenzuola bianche, intrisi del sangue delle mucche che avevano sacrificato, mentre eseguivano rituali nella campagna austriaca, accompagnati da musica, canti, danze e banchetti. Fu così che arrivai a comprendere la trasgressività intrinseca dell’arte moderna.

Le rappresentazioni del Das Orgien Mysterien Theater non avevano nulla a che vedere con l’identità personale o la trasmissione di informazioni. Erano piuttosto tentativi di abbandonare le norme sociali e la razionalità apollinea per abbracciare il caos dionisiaco nella speranza di raggiungere la catarsi. Gli artisti sono passati dal tentativo di distruggere la realtà, come ai tempi dei dadaisti, al tentativo di riaffermarla e ripristinare l’ordine oggi. Ma è troppo tardi. La realtà consensuale è tramontata. Abbiamo la fortuna di vivere oggi, in Occidente, in uno strano mondo privo del senso comune. Dal momento che la realtà sta diventando più strana della finzione, dovremmo abbracciare il surreale e sforzarci di immaginare finzioni ancora più stravaganti. Potremmo iniziare accettando il fatto che ci vengono costantemente raccontate bugie, che la maggior parte di ciò che vediamo e sentiamo è un’illusione, una rappresentazione distorta o una performance, e che va bene così. La vita è diventata per molti versi una finzione, la realtà sta svanendo sotto le sue stesse rappresentazioni, siamo vittime di allucinazioni collettive, continuamente in bilico sul precipizio del reale, con un multiverso di fantasie che ruota sotto di noi, e va bene così, va bene. La realtà è scomparsa e il mondo dell’arte continua a cercare di recuperarla, insistendo nel dire: “Oh, possiamo ritrovarla, possiamo aggrapparci ad essa, se continuiamo a esporre ceramiche, se continuiamo a dipingere quadri”, ma non possiamo! 

L’irrealtà del momento presente dovrebbe essere una benedizione per gli artisti e per tutti coloro che si occupano di immaginazione. Non mi interessa particolarmente acquisire maggiore consapevolezza; preferisco guardare opere d’arte che squarciano la mia coscienza, che aprono portali verso il mistero. L’arte mi piace di più quando non significa nulla, o quando la sua bellezza o stranezza trascende il suo soggetto. Smettetela di essere così sensati. L’arte dovrebbe fare ben più che comunicare: dovrebbe commuoverci, farci piangere, metterci in ginocchio. Si tratta, insieme alla musica, dell’espressione più pura dello spirito umano. È una parte importante di ciò che ci rende umani, la parte più importante, e costituisce un continuum di desiderio tramandato nei secoli, percepito in ogni grande museo o cappella rinascimentale.

L’arte è spesso migliore quando è assolutamente folle. Siamo esseri irrazionali e incoerenti, e gli artisti e gli scrittori dovrebbero tornare ad abbracciare questa idea. Se credete che le opere d’arte lancino incantesimi, dovreste usare quella magia per cause più grandi che propagandare una sensibilità americana perbenista e liberale o eludere gli effetti della tecnologia moderna. Siete liberi di sognare qualsiasi cosa. Di costruire mondi diversi, di sussurrare seduzioni in molte orecchie, di tentare di distruggere la realtà: queste sono possibilità che gli artisti hanno sognato per secoli. C’è ancora così tanto da immaginare.

Traduzione dall’inglese di Tommaso Jorio

Questo testo di Dean Kissick è stato pubblicato su “Harper’s Magazine” nel dicembre 2024.
addio ringrazia l’autore e gli editori per la gentile concessione.

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