Attualità di Angelico
Oggi, come forse mai accaduto prima, interrogarsi sull’attualità di Angelico credo significhi fare i conti con il pensiero in quanto campo del discorso. Significa ingaggiare un corpo a corpo con le strutture di questo discorso e con la scrittura come mezzo attraverso cui smantellarle, negoziarle, costruirle. Forse sorprendentemente, o piuttosto in maniera del tutto prevedibile, impone di prendere posizione. E scendere in campo.
Riflettere sul concetto di attualità, infatti, costringe a uno sforzo di posizionamento che precede la riflessione storico-artistica. Posizionarsi incrina equilibri e solleva quesiti. Tra i quali, quello più pressante, che tocca il cuore della questione: che senso ha, oggi, interrogarsi sull’attualità di Angelico? Abbiamo davvero bisogno di sostenerne la rilevanza in un frangente storico – il presente globale – dilaniato, iniquo, tanto oscuro da fare paura? A chi appartiene, poi, questa attualità? Sono queste le domande più severe e irremovibili che dobbiamo rivolgere a noi stessi nel rinegoziare ogni giorno il nostro stare nella disciplina?
Angelico non si misura su Masaccio, pur discendendone. Ne ha scritto, tra gli altri, Eugenio Battisti, rimarcando il “fervore civile dell’Umanesimo” di Masaccio rispetto al quale Angelico, “capovolgendone il fine”, appare figura eccentrica. Dentro quell’umanesimo, Angelico fu essenzialmente un uomo di fede: domenicano e pittore, maestro degli artisti e beato. Il suo universo, disposto in un ammasso di galassie soggiacenti alla legge divina, risuona con la dottrina tomistica. Là, ragione e grazia non collidono, ma anzi convergono nella creazione di immagini mistiche ordinate alla predicazione.
In Angelico, il verbo si è fatto forma. E la forma, precipitata nella storia, si invera nel verbo e di esso rifulge, sublimata. Senza alcuna mira universalizzante, mi pare che la luce di Angelico, promanata da una forma che non è mai solo forma e da un contenuto così innervato da risultarne attraversato, apra a un’esperienza plurale dell’immagine, potenzialmente transculturale: un orizzonte duttile giacché disponibile a sovrascritture, retroilluminazioni, infrazioni; a liberi balzi della fantasia, più di tutto. Credo che tale potenzialità si realizzi nello sdoppiamento, a tratti disorientante, tra biografia e biologia delle immagini, scissione a me particolarmente cara e che vorrei esplorare. La biografia delle opere di Angelico espone la Rinascita italiana, le sue influenze europee, i suoi precoci “appetiti” eurocentrici. La biologia di quelle stesse opere configura uno scarto ulteriore, di ampissimo respiro: un regno di immagini che, delicatamente scollate dal loro contesto, scardinano il tempo e le geografie, negoziano, stanno al servizio. Emozionano e commuovono.
Innumerevoli, in questo senso, appaiono le innovazioni e gli espedienti compositivi da questi sperimentati in una produzione tutt’altro che monolitica. Angelico pratica un mimetismo massimalista che non teme l’eccedenza e la leziosità. Nel suo farsi allegoria esso rivela, al contempo, la finitudine della superficie dipinta. Così, le partiture di piccoli fiori dolcissimi, i fondi laminati, i drappi cesellati costituiscono simboli, ma funzionano anche come pretesti: arabeschi decorativi che sono in tutto e per tutto struttura e geometria. Attraverso di essi, le immagini di Angelico serbano un fondo di inquietudine. Nelle annunciazioni, incoronazioni, visitazioni, crocifissioni, vige la prospettiva matematica, rivelata da una tomba divelta o dal lungo collo di una tromba che intona l’Apocalisse.
Tuttavia, accade anche che le figure sembrino trasfondersi in sospensione, producendo una tensione tutta metalinguistica, che coinvolge il quadro quale oggetto: modernità vera, prima che modernismo. Si pensi a quegli ori, alchemici, sbalzati sullo spazio della rappresentazione e che su di esso galleggiano. In tale coesione vibrante, i registri si combinano senza soluzioni di continuità. Nelle pale vige un’austera centralizzazione: nelle predelle, telescopiche, è tutto un brulicare di vita, di miracoli, di fattacci. Esiste un piacere sincero per la gratuità della narrazione. La violenza è vissuta come una condanna inevitabile e, perciò, neutralizzata. L’uso del colore risulta coraggioso, anche quando gloriosamente stucchevole. La forma, ogni forma, rivendica il gesto, la visione, l’altrove.
Oltre ogni specificità mediale, e quasi in una prospettiva pre-mediale, le immagini di Angelico sembrano invitare a una riflessione condivisa sui mezzi del nostro presente. A mettere in discussione le nostre certezze, più o meno granitiche: le mie, in primis. La sua esorbitanza, eccentricità e rigore ci esortano, nell’oggi, a confrontarci con le sirene di un minimalismo di facciata, disinnescato o puramente esornativo, e a tornare a essere piuttosto massimalisti. Nella ricerca del senso, dell’integrità, dell’errore. A valutare la possibilità di condurre il vezzo o il vizio sino al punto di rottura. A interrogare l’urgenza della trovata a tutti i costi, della novità a tutti i costi, della surrealtà a tutti i costi. A meditare sul discrimine tra realtà e fonti, in una cornice di postmodernismo endemico. A chiedersi il perché, ancora, della pittura per la pittura. A difendere una dimensione autoriale-stilistica senza rimanerne intrappolati. A non temere il colore. A non temere la bellezza. A non smarrire la centralità del racconto, fosse anche un racconto sul niente. Ad affermare, sempre, la libertà della propria visione. A rivendicarla attraverso le opere. Ad avere, se possibile, una propria visione del mondo e sul mondo.
Se non ora, quando?
Questo testo nasce dalla visita all'esposizione “Beato Angelico” a cura di C. Brandon Strehlke, con S. Casciu, A. Tartuferi (Firenze, Palazzo Strozzi, Museo di San Marco, 26 settembre 2025 - 25 gennaio 2026).



