Come un autoritratto entro uno specchio convesso
Thea Djordjadze da kaufmann repetto, Milano
Le forme mantengono una misura forte di bellezza ideale poiché in segreto si nutrono della nostra idea di distorsione. […] Qualcosa di simile al vivere ha luogo, una transizione dal sogno alla sua codifica.
John Ashbery
Ancora ignota, l’associazione di idee si insinua fin dall’ingresso nella sede milanese di kaufmann repetto. Nella prima sala, essa nasce come stupore, di fronte al basamento totalmente trasparente; cresce sotto forma di stranezza, in basso, rispetto al quadro collocato a un’altezza incongrua; matura poi in spaesamento, quando si segue la parete d’angolo che, per circa un metro, prolunga in altezza il piano di calpestio.
La similitudine si fa sempre meno inconsapevole nella saletta alla quale si accede quasi con timore, per il suo essere perfettamente contenuta, e per la presenza ingombrante dell’oggetto in alluminio che occupa la stanza come una presenza aliena, atterrata sul pavimento rosso.
Fino a quando, nella terza sala, l’affinità diventa finalmente conscia guardando all’angolo opposto, dove si staglia una scultura interamente in alluminio e dalla forma inarcata all’esterno: tutto lo spazio della mostra allestita da Thea Djordjadze assomiglia a quello che potrebbe essere ritratto in uno specchio convesso. Tutto l’ambiente espositivo è infatti permeato dalla bizzarria dell’anamorfosi, dalla distorsione della “magia” che Jurgis Baltrušaitis riconosceva a questo tipo di superfici speculari, al punto da tendere la convessità fino al parossismo, estroflettendo idealmente il verso e facendolo rispecchiare con il recto, come recita il titolo di questa importante mostra milanese, Back Facing Front.
L’artista georgiana, di base a Berlino, da decenni utilizza il medium installativo per incrinare gli abituali schemi percettivi, creando atmosfere in perenne fluttuazione e confondendo i concetti tradizionali di scultura e architettura, design ed esposizione, entro uno spazio espanso eppure sospeso, come vetrificato all’interno di una superficie riflettente. In tutte le sue opere, si fa evidente un’assimilazione del lessico della critica istituzionale, della grammatica del display modernista e dei sintagmi minimalisti, che risulta così profonda e sicura da permetterle di piegare il linguaggio su se stesso, decostruendolo e orientandolo verso un’esperienza intimista dello spazio. Djordjadze rifiuta infatti tanto la normatività modernista, quanto l’autoreferenzialità del minimalismo, e declina invece le sue strutture in senso poetico, problematizzando tutte le convenzioni espositive.
Anche i vasti riferimenti letterari (da Proust a T. S. Eliot, da Scott Fitzgerald a Brodsky), e i rimandi ai maestri dell’architettura modernista (come Le Corbusier, Mies van der Rohe e i coniugi Eames), che si ritrovano in molte sue opere, vengono integralmente metabolizzati, sopravvivendo solamente come indicazioni essenziali che sfuggono al linguaggio e alla metafora per regredire in una dimensione corporalmente vissuta e psichicamente immaginata, intuibile solamente entro lo scorrere del tempo.
A questo proposito, sorprende che tra i molti concetti chiamati in causa per interpretare l’opera di Djordjadze, la critica non abbia finora evidenziato un possibile parallelismo con l’anamorfosi. È proprio su questa associazione di idee che vorrei impostare la mia lettura degli spazi allestiti dall’artista, prendendo a riferimento un’opera cruciale per questo tipo di sguardo, quale appunto l’Autoritratto entro uno specchio convesso, realizzato nel 1524 da Francesco Mazzola, detto Parmigianino.
Come il pittore manierista, descritto memorabilmente nelle vite vasariane mentre è intento a indagare le “sottigliezze dell’arte”, anche Djordjadze colloca le sue ricerche in una zona interstiziale, sempre scorciata rispetto alla frontalità della storia dell’arte. E ancora, come Parmigianino, anche Djordjadze opta per uno spazio di rappresentazione non razionale, onirico e patentemente misterico. Quello “stile alchemico” che Maurizio Fagiolo dell’Arco aveva individuato per il pittore, risulta in buona parte sovrapponibile alla poetica di questa artista che, nelle sue mostre, si impegna sempre in uno sperimentalismo ad oltranza; pone tutto il mondo dell’immaginazione (dalla letteratura all’arte, passando per l’architettura) su uno stesso piano; adotta un orizzonte temporale espanso, tale per cui in ogni mostra lavori precedenti possono essere modificati a seconda delle peculiarità del nuovo spazio espositivo, così da rendere tutta la sua produzione una continua trasmutazione creativa.
Il parallelismo ermetico risulta ancora più radicale, se si considera l’operazione sovversiva compiuta da Djordjadze rispetto al linguaggio: non chiarire o spiegare, bensì comprendere il mistero attraverso il mistero, illuminare attraverso una paradossale opacità poiché, come sapevano bene gli alchimisti, l’unica via per accedere all’ignoto è quella dell’allusione, ma l’unico modo per entrare in relazione con il mistero è quello di proiettare su di esso un’ulteriore messinscena ermetica.
In Back Facing Front, una scelta in questo senso emblematica è quella di porre i pannelli espositivi addosso alle finestre della galleria. Occludendo la trasparenza del vetro, l’artista rifiuta il mito funzionalista celebrato dai maestri del Modernismo architettonico e recupera la trasparenza come finzione, ovvero come valore immaginario e misticheggiante, idealmente più vicino a quelli che erano stati i progetti originari della Glasarchitektur di Paul Scheerbart e Bruno Taut, o agli scritti teorici di Walter Benjamin. Proprio per questo, gli spazi trasparenti che Djordjadze sceglie di esporre come basamenti, o come pannelli a sé stanti, risultano venati di una forte componente psichica, una patina onirica tale da renderli luminosi non perché limpidi, ma perché misteriosamente opachi.
Ma è l’intero ambiente espositivo di kaufmann repetto a essere trattato dall’artista come un luogo onirico, uno spazio immaginativo che molto può avere in comune con l’ermetismo di Parmigianino e con l’alchimia, studiata in chiave psicoanalitica da Carl Gustav Jung. A sostanziare questa atmosfera da sogno, è la dispersione della soggettività che Djordjadze distribuisce sapientemente nella mostra. Privati di riferimenti stabili, ci si smarrisce in un caleidoscopio di riflessi e trasparenze, nel quale il corpo stesso si deforma e si frantuma. È uno spaesamento che si rivela tuttavia vivificante, poiché evade dall’ortopedia del Sé, prescritta dalla formazione dell’Io conseguente alla fase lacaniana dello specchio. Nella distorsione convessa, risiede il potere liberatorio di questa esperienza autenticamente ambientale, che incrina la coincidenza dell’immagine con il Sé. La pratica anamorfica di Djordjadze reinventa così il nostro rapporto con i dintorni, investendoli di un’energia psichica ancestrale, permettendoci di recuperare l’accesso a una totalità psicofisica che abbiamo smarrito con il nostro stesso ingresso nella vita cosciente.
Tra le metonimie dei corpi che affollano lo spazio, c’è sicuramente quella della seduta in ferro con lo schienale in gommapiuma, un pannello retrostante con la fotografia del braccio di una statua antica e, più indietro ancora, un altro pannello con i fotogrammi fuori fuoco di uno stivale da donna.
A questo proposito, l’elemento più indicativo rimane la fotografia della scultura materica che Djordjadze ha plasmato come un enigmatico contenitore. Rigorosamente senza titolo, come tutte le opere qui esposte dall’artista, la fotografia già nel 2023 era stata collocata a Bruxelles, presso WIELS, in una posizione preminente, come su un altare. La sua forma contenitrice si carica d’altronde di suggestioni alchemiche, dal Vaso Ermetico vero e proprio, alla sua possibile versione antropomorfizzata che, in questo caso, ricorda da vicino un polmone. La sua esposizione costituirebbe perciò uno dei punti chiave di tutta la mostra, dove sembrerebbe possibile sentire il respiro dell’intero spazio espositivo, un espandersi e un contrarsi che ci riporta, ancora una volta, al doppio movimento dell’Autoritratto di Parmigianino.
La soggettività incerta del pittore manierista sta infatti nell’ambiguità della mano che si approssima allo specchio (e, attraverso di esso, allo spettatore), e nello sfondo che è allo stesso tempo destinato a rifuggire infinitamente all’indietro. Lo sguardo di Parmigianino sta sospeso nel mezzo, tra presenza e assenza, tra la nitidezza del reale e la nebulosità del sogno, testimoniando in maniera esemplare come il ritrarre sia sempre un catturare in immagine paradossalmente fondato sul recedere del soggetto.
Su questa dinamica essenziale si è concentrato John Ashbery, in una delle più importanti poesie della letteratura americana del secolo scorso. Nel 1975, con Self-Portrait in a Convex Mirror, il poeta prende l’opera di Parmigianino come modello per riflettere sulla propria soggettività. Critico d’arte e conoscitore attento della poetica surrealista, Ashbery possiede tutta la perspicacia necessaria a comprendere la profondità onirica ed ermetica dell’opera del 1524. Egli sa che un dialogo con il pittore manierista può avvenire solo sul piano del sogno e dell’alchimia. L’arte poetica di Ashbery e quella pittorica di Parmigianino diventano un unico terreno, dilatato oltre il tempo e lo spazio e reso comune dall’identica radice psichica delle due esperienze. Come in un doppio sogno, poeta e pittore possono identificarsi e confondere la propria soggettività, anche se solo per quell’“istante d’attenzione” che sempre è destinato a svanire, come ci dice Ashbery.
Se l’Autoritratto di Parmigianino può valere come termine di riferimento per la mostra di Djordjadze, è anche grazie a questa chiave di lettura fornita dal poeta americano. La logica del doppio sogno sembra infatti applicabile anche a Back Facing Front: aggirandoci nello spazio della galleria milanese possiamo sognare il sogno di Djordjadze, perché a sua volta l’artista ha sognato il nostro sogno, nel momento in cui ha allestito l’ambiente espositivo. Su questa comune dimensione onirica e alchemica, si fonda il transfert tra l’artista e il visitatore, tale per cui lo spazio diventa il luogo di una soggettività dispersa e diffusa, e l’autoritratto finisce per valere tanto per Djordjadze, quanto per chi visita la mostra. È solo un “istante d’attenzione” che subito si smarrisce, ma il ricordo di quanto è accaduto verrà sicuramente conservato, così come non si dimenticherà questa esposizione, una delle più valide e interessanti dell’ultimo periodo milanese.



