Anacronici sempre

Su alcune mostre recenti sul passato

17.12.2025

Gli uomini assomigliano più al loro tempo che ai loro padri

Marc Bloch

Chi scrive ritiene, come molti prima di lei, che non sia possibile fare storiografia senza critica.

Allo Stranieri ovunque di Adriano Pedrosa chi si occupa di storiografia risponde con un proclama meno modaiolo, altrettanto essenzialista, più onesto: anacronici sempre. C’è qualcosa di perverso nel sedersi alla propria scrivania e aprire tutte le mattine, come secondo un rito, dal proprio MacBook Pro un giornale di cento anni fa.

Ci viene chiesto costantemente di posizionarci, ma mai nella storia. Il tempo come sequenza è il patto narrativo che continuiamo a disattendere. Non facciamo altro, non possiamo fare altro, che comporre palinsesti; quelli che Rosalind Krauss diceva essere la forma astratta della narrativa della storia della biografia. Sospesi tra la traccia e il residuo, il soggetto e l’oggetto, il mio e il tuo, l’autodefinizione e l’autoinganno (cosa appartiene a chi, cosa è dove, cosa sto guardando, chi?), fino al capogiro, alla nausea, al cortocircuito.

Ci sono due posture, mi sembra, per tenersi addosso la ridicola medaglietta di “Storiche”, sopportando, convivendo con, tutto questo nonsenso.

Il cinismo: quello degli anniversari, dei centenari, delle cerimonie, delle facili attualizzazioni che non nascono dal – sacrosanto, serendipico, metodico, fobico – smarrimento nelle maglie larghe dell’anacronismo, ma dalla accurata (inevitabile?) rincorsa a fondi, rilevanza, protagonismi mascherati da impegno. O (peggio) l’ammiccamento da “storico-token” a quelle forze che fanno di alcune forme di anacronismo – la nostalgia, il revanscismo, la franca citazione, non troppo sottile ché poi non la capiscono – una strategia politica, che confonde, tra un -neo e un post-, (anche) nella vaghezza delle immagini (anche) della storia dell’arte la propria violenza ideologica.

Così, appena un anno fa, Gabriele Simongini inaugurava il suo testo in catalogo a Il tempo del Futurismo (la mostra allestita alla Galleria Nazionale di Roma nel 2024) con la curiosa formula “Il Futurismo è oggi” – chiosa di un’esposizione che, oltre a riuscire miracolosamente a raccontare il futurismo senza mai nominare il fascismo (dio non voglia il colonialismo o le leggi razziali!) presentava il movimento, con una forzatura concettuale prima ancora che cronologica, come eminentemente italiano. L’Italia ultranazionalista del 2024 rifiuta, all’ultimo momento, il trasferimento a Roma della mostra Futurism & Europe (organizzata a Otterlo nel 2023), optando per la produzione di uno sgangherato Frankenstein apologetico made in Italy, che riusciva nell’autarchica e non facile impresa di posizionarsi più a destra della compianta avanguardia.

Pensavo a questa, brutta, mostra visitando delle mostre recenti, belle e di ricerca, sull’avanguardia in Europa centro-orientale come École de Paris: Artists from Bohemia and Interwar Paris (curata da Anna Pravdová) e In the Eye of the Storm: Modernism in Ukraine, 1900 - 1930s (curata da Katia Denysova, Konstantin Akinsha, e Olena Volʹvach-Kashuba, ora, fino al 1 febbraio, al Muzeum Sztuki di Łódź).

Si tratta, in entrambi i casi (ma in modi molto diversi), di esperienze che reclamano un filone di ricerca volto a ri-nazionalizzare alcuni episodi chiave del modernismo transnazionale. Da un lato, identificando un “dna ceco” in seno alla corrente più cosmopolita del primo Novecento – istituendo un paradigma, nelle parole della direttrice della National Gallery di Praga Alicja Knast, singolarmente etnocentrico (“This [exhibition] is Czech. It highlights how Czech artists, rooted in their own cultural backgrounds, sought to integrate into French society”) e migrante (“What happened in Paris is particularly relevant because these artists were provided excellent conditions to settle and integrate […]. This experience is a powerful lesson for today, especially in the context of migration. If we provide the right conditions, we can witness beautiful outcomes”). Dall’altro, ri-nazionalizzando – nel corso, drammatico, dell’invasione su larga scala dell’Ucraina – un corpus di opere e artisti dell’interbellum sovietico che, quando ha la fortuna di arrivare sui nostri libri di testo, lo fa in capitoli dai nomi infelici, disattenti e oggi problematici, che parlano di “arte russa”, “avanguardie russe”, “grandi artisti russi” (sic, nei manuali di Argan e Barilli).

Per chi conosce bene le avanguardie occidentali e poco quelle orientali, è innegabile un piacere intenso, che deriva dal poter scoprire le trame, le influenze, la lingua della modernità tradita da un accento pesante, l’irriducibile alterità di molte esperienze a un paradigma unitario, la sostanziale impossibilità di pervenire a una definizione stabile di avanguardia e di moderno, nemmeno nella sua stagione più “canonica”. Per tutti, è un sollievo sapere le opere lontane dai bombardamenti. Per una persona sensibile allo spazio e al tempo, stupisce l’anacronismo con cui la mostra parla di “Modernism in Ukraine”. Artisti nazionali di una nazione che non esiste ancora.

Non dovrebbe sorprenderci troppo, abituati, noi, a fare cominciare la storia dell’arte italiana con Giotto più che con Hayez. Eppure, abituati anche a pensare al modernismo in termini di circolazione, scambio, meticciamento, viaggio, trasgressione di tutti i confini, rimaniamo perplessi nel vedere i partecipanti al grande gioco dell’avanguardia isolati in vitro, tolti da Parigi o Berlino e riportati a Kharkiv o a Brno.

Eppure, a est, non stiamo assistendo al teatrino futurista romano – la posta in gioco è la memoria culturale di una nazione carsicamente cancellata dalla storia, che orienta con movimenti sempre più ansiosi le luci anacroniche del dispositivo-mostra per rimanere visibile, continuare a esistere. Si può guardare a est come si può guardare in Medio Oriente per vedere questi effetti di luce, questi dispositivi resistenti e malinconici illuminare il mondo dell’arte come un’aurora.

Sono tempi strani per gli storici, e soprattutto per me – che realizzo che le mostre dal taglio nazionale possono indiscriminatamente indignarmi o commuovermi, e non credo sia una questione di orientalismo, ma di rifiuto istintivo degli essenzialismi. Da un lato, qui, abbiamo decostruito tutto: dio, il soggetto, l’oggetto, la storia, la metafisica, l’autore, il genere. Dall’altro, tutto sembra tornare, come un rimosso freudiano che non è più possibile contenere. Dai margini, ci chiedono se il relativismo esasperato non possa essere un’arma a doppio taglio, che invisibilizza soggettività a cui si chiede di decostruire prima ancora di potersi costruire.

Il mondo dell’arte, nell’estenuante orizzontalità del suo presente eterno, ha allargato i propri confini a nuove geografie con spirito da conquistadores del tardo capitalismo: più nomi, più biennali, più mercato, nuovi esotismi, nuovi alibi (dare agli indigeni non la terra, ma lo spazio del padiglione). Per la storia dell’arte, allargare i confini, davvero, vuol dire assistere a un destabilizzante “effetto passato”, a un troubling delle categorie con cui eravamo abituati a lavorare, e a sentirci buoni. Un effetto-passato che sembra, a chi guarda con attenzione quel che succede fuori dai circuiti del super centro e del super contemporaneo, star producendo, tra le altre cose, un’idea anacronica di nazione come concetto-cyborg, ibrido e riconfigurabile, campo di iscrizioni di codici non sempre leggibili, da avvicinare con cautela. Ci sono dei protocolli di sicurezza: l’etica e la teoria.
Saremo all’altezza?

François Zdenek Eberl, Semi-nude, ca. 1926, collezione privata, fotografia di Camilla Balbi
Alexandra Exter, Bridge at Sèvres, ca. 1912, National Art Museum of Ukraine, fotografia di Camilla Balbi
Edita Hirschová (1909-1942), Couple, 1935, collezione privata, fotografia di Camilla Balbi
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