Intrappolati dai maestri
Fantastica. 18ª Quadriennale di Roma
“Verrebbe la voglia di dire, iniziando un articolo come questo, che la nuova arte italiana non esiste ancora”.
Iniziava così il primo articolo di Francesco Bonami su “Flash Art”, con una citazione di Gregorio Magnani tratta da un testo pubblicato su “Arts Magazine” nell’aprile 1989. E verrebbe la voglia di iniziare questa recensione allo stesso modo, perché dopo aver visitato Fantastica, la 18° Quadriennale di Roma, si ha l’impressione che artisti e curatori italiani vivano in un continuo slittamento temporale, in una sorta di interminabile postmodernità che li costringe a ricordare, a citare, a ritornare costantemente sugli stessi sentieri.
Nei mesi che hanno preceduto l’inaugurazione della mostra, si è molto parlato del riconoscimento dell’arte italiana all’estero. Da più parti, se ne è quasi fatta una colpa agli artisti: poco vendibili, incapaci di produrre narrazioni esportabili o addirittura troppo poco “esotici” per un sistema dell’arte globalizzato affamato di minoranze. Poco (o nulla) si è detto sull’irrilevanza della curatela italiana nello scenario internazionale, sulla difficoltà di formulare discorsi capaci di incidere, di generare dibattito, di proporre visioni che superino i soliti temi, le solite cornici. Poco (o nulla) si è detto su una critica inesistente, che vivacchia in un limbo tra la vita e la morte (ma più la morte). Una critica che abdica continuamente al suo ruolo di mediazione e conflitto e che si manifesta solo e soltanto come il fantasma di sé stessa.
Questa Quadriennale, in fondo, ha il grande merito di rendere chiari e visibili questi problemi. Di metterli a nudo, di esporli. E da questo punto di vista, Fantastica è una mostra davvero sintomatica. Anche perché si fa testimone di una situazione che appare ormai irreversibile: nel contesto dei grandi eventi espositivi, gli artisti sono costretti a giocare il ruolo degli illustratori: sembrano creatori di oggetti e immagini a sostegno di idee curatoriali. Sul sito della Quadriennale, in homepage, non campeggiano i nomi o le opere degli artisti, ma i faccioni dei cinque curatori di questa edizione, le loro biografie, le mostre curate, gli incarichi ricoperti.
È comprensibile che i progetti curatoriali servano a rassicurare le istituzioni e i funzionari pubblici, a fargli credere che i soldi investiti siano spesi per cause giuste, per temi “urgenti”, per questioni che vale la pena affrontare. È la bugia che ci raccontiamo tutti. Quello che risulta difficile da accettare è che, ogni volta, l’arte debba servire a confermare, a ribadire, a rassicurare, finendo col perdere qualsiasi tipo di tensione.
I cinque progetti curatoriali ideati da Francesco Bonami, Alessandra Troncone, Francesco Stocchi, Emanuela Mazzonis di Pralafera e Luca Massimo Barbero – scelti dal presidente della Quadriennale, Luca Beatrice, prematuramente scomparso all’inizio del 2025 – si presentano come indagini (diversissime) sulla ricerca di 54 artisti italiani di generazioni diverse. Nessun curatore mira a isolare un orientamento linguistico, nessuno prova ad affrontare il terreno scivoloso e mitico dell’identità artistica italiana. Si procede piuttosto per temi – l’autoritratto (Barbero); il corpo mutante, postorganico e postumano (Troncone); la proliferazione delle immagini digitali (Mazzonis di Pralafera) – o ci si affida a criteri del tutto personali (Bonami e Stocchi). Ne emerge una mappa evidentemente frammentata, a tratti caotica, resa ancora meno leggibile da un allestimento che prova a tenere assieme una quantità di opere chiaramente sproporzionata rispetto allo spazio.
Per iniziare questo percorso tra le trame di Fantastica si potrebbe partire dalla sezione curata da Luca Massimo Barbero, il cui titolo recita: La mia immagine è ciò da cui mi faccio rappresentare: l’autoritratto. Si tratta di una riflessione sull’autoritratto contemporaneo che, tuttavia, scopriamo subito essere solo un “pretesto e un enigma”, poiché il vero bersaglio, ci dice Barbero, non è il mito di Narciso, quanto l’Orfeo di Jean Cocteau, dove lo specchio non restituisce un’immagine in cui perdersi, ma una soglia tra due mondi comunicanti. La tesi del curatore, infatti, è che l’autoritratto non coincida con la rappresentazione del sé, ma si annidi e si reinventi nei processi, nelle scelte e in quella pletora di oggetti di cui ognuno si circonda, fino ad arrivare alla conclusione che, forse, è solo attraverso il loro lavoro che gli artisti, oggi, possono autorappresentarsi.
È un’ipotesi tutt’altro che inedita; nell’ambito degli studi sulla storia e la teoria dell’autoritratto, circola almeno dagli anni Novanta: l’immagine dell’artista che scivola fuori dal volto per manifestarsi attraverso gli strumenti del proprio mestiere o in un repertorio eterogeneo di simboli e segni.
Per “consegnare un corpo” alle sue meditazioni – sono proprio queste le parole che usa Barbero – la scelta è ricaduta su opere che, sebbene interpretabili (a volte con qualche forzatura) come autoritratti espansi, hanno davvero poco in comune se non un continuo gioco di rimandi, citazioni, slittamenti di immagine. In questa sezione, molto sembra già visto, molto sembra qualcos’altro. Siamo catapultati in una sorta di incessante déjà-vu. Ecco allora le rielaborazioni poveriste di Gianni Caravaggio; la transavanguardia detonata di Matteo Fato che ridipinge l’Apocalisse di Scipione; la sagoma di una scultura di Bernini deformata da Vedovamazzei; i quasi nudi, quasi autoritratti di Roberto de Pinto che ripete Louis Fratino (che è già una ripetizione della ripetizione).
La presenza di Donato Dozzy, nelle stanze di Barbero, ha lo stesso effetto delle scarpe da ginnastica indossate sotto un abito sartoriale.
La musica non cambia nella sezione Il tempo delle immagini, a cura di Emanuela Mazzonis di Pralafera, che si apre con l’interrogativo che, almeno da vent’anni a questa parte, accompagna ogni mostra di fotografia non documentaria: “Come reagisce l’arte di fronte all’inondazione di foto, selfie, meme, screenshot, gif, reel, stories che sommergono la nostra vista?”.
È la domanda a cui sembra condannata la fotografia. Costretta a spiegarci sempre qualcosa sulla proliferazione o la natura delle immagini. Come se, ogni volta, dovesse giustificare la propria presenza negli spazi dell’arte attraverso un compito, una funzione. Limitando la fotografia in questo quadro teorico-speculativo, credo si limiti anche il percorso e l’evoluzione degli artisti-fotografi italiani, che sembrano una specie di setta: sono sempre gli stessi, curati dagli stessi curatori, partecipano alle stesse mostre, agli stessi premi, agli stessi bandi. È una sorta di micromondo all’interno di un altro piccolissimo mondo.
Anche in questo caso la selezione procede per contrasti e comprende sia artiste pienamente riconosciute, e celebrate, come Linda Fregni Nagler, sia voci emergenti che spesso escono dal formato tradizionale o dagli stessi regimi del fotografico.
La mostra ideata da Francesco Bonami, invece, si intitola Memoria piena. Una stanza solo per sé, e prende spunto dall’omonimo saggio che Virginia Woolf pubblicò nel 1929. Riprendendo la consueta formula della “dittatura dello spettatore”, Bonami affida ancora una volta al pubblico il compito di trovare connessioni “reali o immaginarie” tra le opere esposte, anche perché la frase con cui introduce e motiva la sua sezione è davvero generica, quasi retorica: “Non ho voluto pensare a un tema che unificasse gli artisti da me selezionati se non quello della propria indipendenza e autonomia”. Seguendo il suo statement, Bonami avrebbe potuto selezionare il 99 per cento degli artisti. Quale pittore non rivendica la propria indipendenza e la propria autonomia? Chi è che non vuole una stanza solo per sé?
Nonostante ciò, il decano dei curatori italiani ha sicuramente degli ottimi consiglieri (o consigliere), perché se Chiara Enzo, Giulia Cenci e Jem Perucchini sono presenze tutto sommato prevedibili, emiliano furia e Friedrich Andreoni non sono scelte scontate.
furia, pittore milanese, espone quattro dipinti che oscillano continuamente tra l’indistinto e il riconoscibile: ampie macchie di colore si dilatano come gocce d’olio sulla superficie dei quadri, qua e là, pochi dettagli sembrano emergere con la precisione di ricordi improvvisi.
Andreoni presenta un’opera inedita intitolata Un tout sans fin: in una grande fonte battesimale risuona la voce registrata di Claudia Cardinale che intona Sinnò me moro, la ballata composta da Carlo Rustichelli per il film di Pietro Germi Un Maledetto Imbroglio. All’interno di questo contenitore ottagonale, realizzato in travertino marchigiano, galleggia una piccola scultura di bronzo (appartenuta all’attrice) che sembra quasi danzare sulle note della Cardinale. È un lavoro che posiziona l’installazione su un piano virtuale, immaginativo, e che produce un illuminante cortocircuito di memorie.
Allo stesso modo di Bonami, anche Stocchi non chiarisce a pieno le sue scelte curatoriali, affermando di aver selezionato solo artisti il cui lavoro, “in modo dissimile e non gerarchico”, trova “particolarmente stimolante e autentico”. Ispirata alle esposizioni surrealiste allestite da Marcel Duchamp tra anni Trenta e Quaranta, la sua mostra (Senza titolo) è un tentativo di autosabotaggio. Stocchi ha coinvolto gli stessi artisti nella progettazione dell’esperienza espositiva, dal posizionamento dei lavori all’illuminazione, con l’obiettivo di concepire l’intera mostra come un atto creativo.
Malgrado il nobile intento, la sua sezione è quella più regolamentata. Le opere non sono accompagnate da didascalie, ma all’ingresso dello spazio viene consegnata una grande mappa arancione con i nomi degli artisti e i titoli dei lavori. Il risultato è che il pubblico ha gli occhi fissi sulla mappa mentre cerca di capire chi è l’autore di questo o quell’altro dipinto, tenta di leggere il testo di sala che scorre su un display a led, aspetta che si attivi il ragno meccanico di Arcangelo Sassolino o che la performer di Alessandro Sciarroni inizi a danzare. Il disorientamento è artificiale, costruito, e alla fine del percorso, nonostante l’immenso tessuto geometrico di Adelaide Cioni che avvolge l’ultima sala, non ci sembra di aver attraversato un Gesamtkunstwerk, ma una galleria di opere (senza didascalia).
Molto più definito e centrato appare l’approccio tematico della sezione curata da Alessandra Troncone, che si focalizza sul corpo, inteso sia come entità smaterializzata sia come oggetto di una sempre più pervasiva attenzione medica, sociale, psicologica. Muovendosi entro coordinate teorico-critiche ampiamente consolidate, soprattutto nel dibattito internazionale, la curatrice tenta di capire in che modo gli artisti italiani abbiano reagito a questa problematica e, in linea con quella che dovrebbe essere la missione della Quadriennale, orienta le proprie scelte sulla generazione dei millenial. Tuttavia, Il corpo incompiuto sembra mostrare in maniera lampante come, nella maggior parte dei casi, l’applicazione delle teorie legate al Nuovo Materialismo o al Postumanesimo si risolva in esiti didascalici, prevedibili, che lasciano trasparire più l’ansia di conformarsi a un discorso dominante che il desiderio di espanderlo o contraddirlo.
La mostra della Troncone pullula di creature ibride che si accordano a un immaginario ormai pacificato, rassicurante: sono mostri che non fanno paura, più illustrativi che perturbanti. Alcuni lavori appaiono fuori tempo massimo, come fossero saltati fuori dalla Biennale di Berlino del 2016; altri ancora, sebbene preceduti da progetti scientifici anche complessi e articolati, danno vita a opere decorative, senza ambiguità né misteri.
Claustrofobico e poetico, invece, il video di Valentina Furian Aaaaaaa (2025), che mostra l’esplorazione di una grotta del Farneto nel parco regionale dei Gessi e dei Calanchi bolognesi. La discesa nelle viscere della terra è guidata da uno speleologo balbuziente che, mentre avanza nell’oscurità, canticchia alcuni estratti dagli articoli di giornali dedicati al suo incidente. Furian compone un ritratto intimo, sorprendente, dove umano e animale, corpo e paesaggio, si confondono in un’unica vibrazione.
La tappa conclusiva della rassegna è la rievocazione della Quadriennale del 1935. La mostra si intitola I giovani e i maestri ed è curata da Walter Guadagnini. Si tratta di un progetto che entra, di diritto, nella storia delle mostre – nel capitolo dedicato a come non riallestire un’esposizione del Ventennio fascista. Il percorso sembra evitare, deliberatamente, tutti gli elementi più controversi di quell’edizione e ne offre una ricostruzione edulcorata, sicuramente densa di capolavori, come l’eccezionale Piena sul Tevere di Giuseppe Capogrossi, ma che non sottolinea abbastanza – e talvolta perde completamente di vista – la portata ideologica dell’evento.
Fantastica è la Quadriennale della fuga dalla realtà, della pittura neosurrealista che trionfa perché è semplice e senza complicazioni. È la Quadriennale dove tutto è addomesticato e confuso, dove tutto è ricondotto in vecchie cornici – quelle che già conosciamo e che non ci fanno paura. È una mostra che sembra aver cancellato il presente.
L’unica vera fortuna (o speranza) è che, forse, non rappresenta davvero l’arte italiana.



